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“Togliamo il disturbo” di P. Mastrocola – Recensione

“Togliamo il disturbo – Saggio sulla libertà di non studiare”, di Paola Mastrocola, edito da Ugo Guanda Editore (2011).

Questo saggio è interessante, perchè esprime un punto di vista esperto e a contatto diretto con la realtà della scuola italiana. A scriverlo è appunto una docente di liceo, immersa nella quotidianità della didattica e nella molteplicità delle attività curriculari ed extracurriculari in cui devono imbattersi i docenti di oggi. E’ un libro che pone delle riflessioni importanti circa il ruolo della formazione scolastica e soprattutto sulle capacità della scuola di oggi di trasmettere conoscenze e competenze reali agli allievi, che possano essere utili per il loro futuro e per il significato della stessa istituzione scolastica. Un libro che qualsiasi formatore deve leggere. In particolare, coloro che si occupano di tecnologie didattiche e quindi di elearning, per avere una visione sul campo di come tali tecnologie siano poi assimilate nel contesto scolastico e come si rischia già oggi di rivoluzionare la scuola, creando dei problemi nuovi, anzichè risolvendo quelli già esistenti. Si osserva infatti come l’uso indiscriminato e poco pensato della tecnologia è deleterio. La funzione della scuola rimane la stessa e a tale funzione ogni innovazione deve essere subordinata, altrimenti la scuola diventa un’altra cosa: un cinema, un teatro, un parco giochi o un “progettificio”, ma non il luogo dove si impara davvero.

Dalla lettura del saggio, posso ricavare tre riflessioni fondamentali.

 

1. Le tecnologie didattiche vanno usate con criterio

Paola Mastrocola a stento riesce a trattenere l’insofferenza verso un modello didattico in continua evoluzione, che sembra sempre più sacrificare le modalità tradizionali dello studio a favore di ulteriori attività, la cui efficacia – sul piano formativo e soprattutto sul piano dell’apprendimento dei contenuti e delle capacità linguistico-espressive – pone seri dubbi. Il pervasivo ricorso ai progetti, ai concorsi, alle attività extra-curriculari, perchè si coinvolgano maggiormente gli allievi e attiri di più la loro attenzione, al fine di garantire poi un risultato in termini di apprendimento, appare come una rincorsa continua verso metodi volti unicamente a rendere oltremodo semplicistica l’acquisizione del sapere e che mortificano lo sviluppo di quelle capacità di comprensione, di analisi, di rielaborazione che lo studio tradizionale, per quanto noioso, se raffrontato a tali innovazioni, era (e dovrebbe ancora essere) in grado di garantire. L’autrice non vuole condannare le varie attività o le innovazioni in generale, ma le condanna nel momento in cui esse non sono realisticamente finalizzate all’apprendere, al formarsi e rimangono invece delle astuzie volte a catturare l’attenzione dell’allievo, il quale si impegna al minimo delle sue possibilità e di fronte a ciò il sistema scolastico, in virtù di tale feedback minimo, lo riempie di complimenti, di valutazioni positive e ” si accontenta”.

libro togliamo il disturboLa rincorsa all’innovazione, quando questa è centrata unicamente sull’attenzione dell’allievo, è un percorso vuoto e privo di effettivi risultati, se non supportato dalla reale attività di studio, che deve esser svolta a casa: esemplare è l’interrogazione  – riportata nel testo – dell’allievo che ricorre all’uso di slide e legge i testi sulla lavagna elettronica. L’utilizzo delle tecnologie didattiche è affascinante, al punto che la stessa docente, dimentica la sua funzione di valutatrice dell’apprendimento e, colpita dall’uso di questi “effetti speciali”, valuta come eccellente la performance dell’allievo, per poi capire – solo dopo – che dietro quegli effetti speciali non vi era stata una produzione propria e autentica dell’allievo in questione, non si era cioè saggiato correttamente cosa effettivamente aveva appreso, ma ci si era soffermati o addirittura incantati alla visione di un elaborato digitale esteticamente così interessante. In pratica, la forma – nella didattica digitale – rischia di sostituire la sostanza, se l’uso della tecnologia diventa un elemento fuorviante, che può divertire il giovane allievo, ma non lo aiuta effettivamente ad imparare, se l’attività assegnata non implica i processi di analisi, comprensione, rielaborazione e produzione di un qualcosa di proprio. La disponibilità di wikipedia e di migliaia di siti web è troppo grande per non favorire una cultura del “copia e incolla”, che niente ha a che fare con un reale apprendimento. La Mastrocola su questo è chiarissima. Il metodo di studio si avvale delle tecnologie, ma non è costituito dalle sole tecnologie. E questo dovrebbe essere presente nella mente dei docenti e dei genitori a casa.

Di seguito, un passo illuminante:

… Ma la norma, la soglia al di sotto della quale nulla è tollerabile, dovrebbe essere che tutti aprano i libri e facciano questa cosa pazzesca e inverosimile di mettersi a studiare. E invece no. A mia percezione, circa il sessanta per cento dei ragazzi non lo fa: non apre un libro, non studia. O studia troppo poco. E, siccome della realtà com’é bisogna pur tener conto, mi chiedo perchè. Tutti oggi dovremmo chiedercelo. Forse i ragazzi non studiano perchè non sanno di dover studiare. Mi viene il dubbio che non lo sappiano perchè noi non gliel’abbiamo detto. Forse ci siamo dimeticati di dirglielo (Mastrocola P., Togliamo il disturbo, 2011, p. 30)

 

2. Studiare è un sacrificio, non un intrattenimento

L’innovazione sterile, perchè non supportata da un vero percorso di studio, rischia di danneggiare gli allievi e quindi la società del futuro, che sarà sempre più impreparata alla comprensione della complessità, ad affrontare la difficoltà della comunicazione, sarà incapace di elevarsi adottando degli stili comunicativi e degli strumenti interpretativi adeguati al contesto, semplicemente perchè l’innovazione avrà semplificato a monte ogni sforzo, avrà sbriciolato ogni complicazione, avrà reso liscio e piatto il percorso verso l’obiettivo, quasi che gli obiettivi da centrare nel mondo del lavoro contemporaneo fossero così facili e “piani” da raggiungere. La complessità e la difficoltà è parte del processo di apprendimento e stimola l’allievo, se ben guidato, a migliorarsi, a porsi domande, a trovare delle risposte, delle modalità interpretative della realtà, a elaborare un suo linguaggio, una sua espressività, una sua visione del mondo. E la complessità non piace. In realtà, non è mai piaciuta. Ma nessuno prima d’ora l’aveva mai accuratamente evitata.

Come dice l’autrice:

In quanto al fatto che la scuola non è mai piaciuta, com’é vero! […] Ma, senza andare troppo lontano, la scuola non piaceva ai nostri nonni, non piaceva ai nostri genitori e non piaceva neanche a noi. Cioè, alla maggioranza di noi. […] Però, fino a qualche anno fa, le cose erano ben diverse: nessuno mai (dico nessuno della massa di noi comuni mortali) avrebbe giudicato suo diritto andare a scuola non studiando, o anche non studiare pur andando a scuola. E, soprattutto, mai avrebbe osato affermare esplicitamente e collettivamente un tale diritto. Avevamo l’idea di un dovere. L’idea che non si dovessero fare esclusivamente le cose che procurano piacere, ma che qualche cosuccia di un po’ sgradevole o faticoso o di non completamente appagante facesse normalmente parte della vita, e che non per questo la vita fosse insopportabile […] Oggi invece un’intera generazione dice esplicitamente con le parole e con i gesti (il gesto plateale e persino esibito di non studiare, in primis), che la scuola non le piace. Però non se ne sta conseguentemente a casa, no, la scuola la frequenta eccome: in fondo la ritiene un luogo ameno, dove non si sta poi così male, anzi, si vedono gli amici, si fanno quattro chiacchiere, si mostrano i vestiti nuovi e il motorino fiammante [..] Voglio dire: questa generazione a scuola ci va, sì, ma a dispetto della sostanza stessa della scuola, che sarebbe il fatto di dover studiare. (Mastrocola P., op.cit., pp.51-53).

L’appiattimento del sistema scolastico nei confronti di questa nuova cultura dello “stare a scuola a prescindere”, è frutto dei tempi moderni, dove la fruizione passiva dei contenuti, l’aspetto ludico, il disinteresse generale della famiglia sono onnipresenti: tutto ciò certamente non orienta i giovani verso uno stile di vita votato minimamente al sacrificio, dove la promozione è subordinata all’impegno e alla resa e invece “basta la presenza” per essere promossi, in barba ai quei “poveri imbecilli” che ancora oggi studiano tutto l’anno, spesso considerati come un caso a parte, un’eccezione che conferma la regola. Le riflessioni della Mastrocola richiamano alla mente un bellissimo passaggio di una pellicola di Daniele Lucchetti dal titolo “La Scuola” con Silvio Orlando. Vi invito a prendere visione di questo spezzone, ed in particolare dello sfogo dell’insegnante di lettere (al minuto 3:50).….

 

Se la scuola funziona solo con chi non ha bisogno, in che direzione stiamo andando? E sopratutto: qual è il vero ruolo delle tecnologie nella didattica scolastica? Stiamo trasformando il curricolo in una serie di attività divertenti, che poi rimarrano solo un bel ricordo, formando nel frattempo una generazione di ignoranti e/o incompetenti? La questione è ancora aperta, perchè sull’altare dell’innovazione continua, della rivoluzione digitale, si rischia di introdurre delle novità – sul piano delle metodologie didattiche – che potrebbero ignorare la sostanza dell’apprendimento, ossia il necessario sacrificio connesso all’atto dell’imparare e memorizzare, capire, interpretare, scrivere e comunicare correttamente.

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3. Internet ha messo in crisi la figura dell’ “esperto”

Ulteriore spunto interessante offerto da questo libro è rappresentato dalla denuncia della fine dell’autorevolezza. La possibilità di accesso al flusso delle informazioni online, ha dato l’opportunità a chiunque non solo di esprimere le proprie idee (cosa meravigliosa e democratica), ma ha di fatto livellato verso il basso il senso della credibilità di ciascuno, elevando a “esperto” chiunque posti o scriva in genere ciò che vuole su un determinato argomento, pur non possedendone le competenze ed essendo privo di titoli o esperienza in funzione della quale accreditare la sua opinione. Tutti grazie ad Internet diventano “esperti” e ciò costituisce certamente un danno, perchè si può attingere dal Web ad ogni fonte disponibile, in assenza di un effettivo filtro e validazione dei contenuti disponibili, sia in merito alla scientificità che alla credibilità di ciò che si trova.  Il livellamento delle opinioni e la contemporanea opportunità di esprimerle per chiunque senza un filtro democratico garantito dalla conoscenza, dallo studio, dall’esperienza sul campo, determina un progressivo abbassamento della qualità dei contenuti e la produzione di un mare indistinto (e forse indistinguibile) di informazioni, dove buona parte dei dati presenti sul web appare non verificata e potrebbe essere addirittura falsa o fuorviante. La modalità di fruire la conoscenza sul web ha progressivamente influenzato il modo di vivere e di costruire il proprio percorso di conoscenza, rischiando di relegarlo alla mera lettura delle fonti trovabili “a caso” e sopratutto nel dare maggior peso alla propria opinione, seppure questa si formi su poca esperienza, poco studio o approfondimento della tematica.

Con le parole di Umberto Eco

I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.

(fonte: http://www.lastampa.it/2015/06/10/cultura/eco-con-i-parola-a-legioni-di-imbecilli-XJrvezBN4XOoyo0h98EfiJ/pagina.html)

Lo studente dovrebbe essere educato anzitutto a leggere e studiare ciò che gli esperti dicono a proposito delle varie tematiche: se approfondisce il contenuto abbastanza, allora potrà avere maggiore “autorevolezza e credibilità” per esprimere ciò che vuole, altrimenti si rimane nel mero ambito delle opinioni “da bar”, che tuttavia non sono scienza e non possono essere considerate ponderate e affidabili in termini scientifici. La scuola ha un ruolo fondamentale nel fare capire questo agli allievi, altrimenti il senso e il valore della stessa conoscenza rischiano di andare perduti, nel mare del”sentito dire” e dell’assenza di una verifica oggettiva e/o affidabile delle argomentazioni.

Cosa ne pensi a tal proposito? Hai letto anche tu questo libro? Aspetto i tuoi commenti qui sotto.

 

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